Ah la buona vecchia scuola dei 70/80enni, la maggior parte dei quali era in realtà buttata presto fuori dalla scuola...
L'alunno si chiamava pure Giuseppe Conte
https://www.corriere.it/cronache/21_nov ... cd9e.shtml
Renzo Modugno e la Columbine di Roma: quel prof ucciso in classe per un quattro in matematica
di Walter Veltroni
«Faccio la seconda commerciale — disse Giuseppe Conte ai funzionari di polizia — avevo preso quattro in matematica. Il professore mi rimproverò successivamente perché non ascoltavo attentamente la lezione. Chiesi di essere interrogato di nuovo e presi un’altra insufficienza. Nel rinviarmi al posto Modugno disse con aria di scherno: “Pitagoricida” perché non avevo saputo fare l’applicazione del teorema di Pitagora. Demoralizzato non volevo più andare a scuola; mia madre mi dissuase e mi incitò a studiare di più. Chiesi al professore di essere nuovamente ascoltato: mi allontanò dicendo “smamma”. Il 13 febbraio Modugno lesse i voti del trimestre: io avevo quattro in matematica. Scoraggiato scoppiai in pianto. Nella mia mente si rincorrevano le idee più disperate: volevo uccidermi e ammazzare il professore. Trascorsi la domenica con amici per divagarmi. Lunedì pensieri ancora più neri. Aprii con una chiave falsa un cassetto di mio padre, ne tolsi una pistola, non poteva accorgersi della scomparsa perché ne aveva un’altra. Alle 14,30 caricai la pistola nel bagno».
Si entrava alle 14,30, allora, per il secondo turno. I ragazzi erano tanti, non come oggi, e le scuole erano poche.
Nella seconda I, alla terza ora, entra il Professor Renzo Modugno. Un insegnante stimato, che la vita aveva già segnato. Sorpreso dallo scoppio della guerra nella città di Gimma, nell’Africa Orientale, viene preso prigioniero dagli inglesi e internato in un campo di concentramento in Rhodesia, all’interno del quale continuò ad insegnare.
Durante quel periodo contrasse un morbo che gli paralizzò gli arti inferiori. Tornato in Italia cercò di curarsi ma la malattia gli lasciò una visibile zoppia.
Quel giorno, a fine lezione… «Il professor Modugno, con il suo passo zoppicante di invalido, appoggiandosi ai bastoni, è sceso non senza sforzo dalla cattedra e si è avviato verso l’uscita salutato rispettosamente dagli studenti… L’insegnante stava già con un piede nel corridoio quando è risuonato il primo sparo. Colpito al collo, il disgraziato ha tentato di fuggire ma i suoi piedi paralizzati non hanno risposto al richiamo della volontà. Raggiunto da un secondo proiettile il professore è caduto a terra ma lo studente, animato da una volontà omicida addirittura incredibile in un ragazzo di quell’età, ha continuato a sparare ancora, raggiungendo l’insegnante con una terza pallottola.»
Le cronache fin qui riportate di due diversi quotidiani danno la misura dell’incredibile episodio, la «Columbine» italiana avvenuta nella Roma dei primi anni cinquanta. E del tutto dimenticata.
Giuseppe Conte era figlio di uno stimatissimo maresciallo di P.S.. Dopo aver sparato si rifugiò in una tabaccheria di Via Nazionale e da lì, col gettone, telefonò a casa dicendo «Mamma, ho ucciso il professore di matematica». Il Corriere della Sera scrisse che il papà era stato udito dire: «Avevo affrontato tanti sacrifici per farlo studiare. Tutte le mie speranze erano riposte in lui. Invece è divenuto un delinquente come quelli contro i quali ho combattuto tutta la vita. Non voglio che mi si parli di lui, spero di non vederlo mai più.».
Il maresciallo per due volte, umiliato e offeso, darà le dimissioni che saranno sempre respinte.
Il professor Modugno spira dopo due giorni di agonia. I quotidiani riportano la notizia di una sua frase pronunciata, in punto di morte, al cappellano che lo assisteva: «Dite a Giuseppe che lo perdono». Ma Don Somma lascerà nel dubbio dicendo, testualmente: «Si tratta di un segreto professionale».
Per tutta la scuola italiana, e per l’intero Paese, quello che è accaduto è sconvolgente. Il professor Modugno, a detta di tutti, era un insegnante capace e comprensivo e, come diranno in una lettera aperta alcuni suoi studenti: «Un vero padre, una guida sincera e benevola... univa nell’insegnamento alla riconosciuta sapienza professionale un senso di profonda umanità... Gli studenti non erano per lui, né si sentivano, “alunni” ma quasi figli o amici.».
I suoi funerali, con un corteo che si snoda da Piazza del Popolo fino a piazza di Spagna, vedono la partecipazione di migliaia di persone. La famiglia Conte invia un cuscino di fiori e il maresciallo si confonde nella folla, vuole testimoniare da che parte sta.
Si ritroveranno il padre poliziotto e il figlio assassino, in una stanzetta del carcere minorile di San Michele Ripa. Anche qui ascoltiamo le parole del Corriere della Sera: «Il ragazzo chiedeva “Quando verrà mio padre a trovarmi?”. Né gli agenti di custodia né i compagni di detenzione sapevano cosa rispondergli. Allora crisi di pianto agitavano Giuseppe Conte: lo udivano singhiozzare anche la notte nella sua cella... Se fosse stato bocciato agli esami Giuseppe Conte avrebbe dovuto ritirarsi dagli studi, suo padre, col modesto stipendio di maresciallo, non avrebbe potuto sostenere altri sacrifici per lui.».
Sembra Rashomon. La stessa storia appare come un poliedro a seconda del luogo da cui la si guardi.
Ma c’è un ragazzo che ha sparato e un uomo che è morto, questo è il dato di fatto.
Si aprono discussioni alimentate dalla morbosità dell’informazione. Gian Carlo Pajetta, su l’Unità, stigmatizza il «circo mediatico» con toni che si potrebbero utilizzare ora: «I giornalisti si sono buttati sulla faccenda, l’aula insanguinata è stata vista soltanto come una fotografia ad effetto; una compagna di scuola, che avrebbe dovuto piangere impaurita e avere il pudore della sua pena, è diventata una divetta con fotografie e interviste, il preside, il bidello, i genitori, tutti hanno dovuto dimenticare che era morto un uomo e che un ragazzo aveva perso coscienza e senno e sono stati trasformati nei protagonisti di un fattaccio».
Ma quella settimana di febbraio finisce come era iniziata. La domenica 22 un ragazzo si getta dal quarto piano della sua casa per i cattivi voti riportati in greco. Filiberto, così si chiamava il ragazzo, era intelligente, sensibile, ma a scuola faceva molta fatica. Ripetente, a fine trimestre si vide consegnare una pagella piena di quattro e cinque. Filiberto aveva problemi di salute. Con una prosa spietata l’Unità così lo descrive: «Il ragazzo, piccolo di statura, magro, squallido, era di salute cagionevole; la sua acuta sensibilità era esacerbata da una malattia del sistema nervoso che si manifestava anche in attacchi epilettici».
Episodi accaduti anche in classe, più volte. Possiamo immaginare, povero ragazzo, con quale vergogna abbia vissuto quella condizione. Prima di lanciarsi dalla cucina della sua casa di via Sant’Ippolito lascia un biglietto di scuse al fratello e un altro in cui dice, secco: «Io non uccido il professore di greco, mi uccido.».
Culture e sensibilità si dividono, ieri come oggi. Lo scrittore Giovanni Mosca, commentando sul Corriere, con malcelata nostalgia per i tempi andati, i tragici eventi, li giudica: «l’ultima drammatica fase di dissolvimento dei rapporti di rispetto e soggezione che sino ad un tempo non molto lontano legavano fortemente i giovani ai loro superiori. Questi legami si son venuti rapidamente allentando e indebolendo e la figura del giovane sottomesso ai genitori, rispettoso per degli insegnanti, riverente verso i vecchi è ormai una figura da libro di lettura».
Pietro Ingrao commenta invece sul giornale dei comunisti: «Responsabilità delle famiglie che vedono nella scuola solo una fabbrica di impieghi? Responsabilità della organizzazione della scuola, dei programmi staccati dalla vita, del vecchiume che non si è saputo cancellare? Responsabilità delle cose, e cioè del sistema in cui viviamo e che trasforma la scuola in una lotta precoce e in un campo di spietata concorrenza per il diploma, dove il quattro e il sei decide del domani?».
Fatto sta, e qui Mosca ha ragione, che il sedicenne Giuseppe Conte «Non è il vendicatore degli scolari perseguitati, non è il giustiziere dei professori di matematica, non è l’eroe della lotta tra due generazioni: è un povero ragazzo con le mani sporche di sangue.».
La Columbine nella piccola Italia del 1953 sembra anticipare temi che accenderanno, quindici anni dopo, scuole, università, piazze. Erano passati allora solo otto anni dalla fine della guerra, i giovani che andavano al liceo erano stati bambini sotto i bombardamenti e avevano visto con i loro occhi la paura, il sangue, la morte.
Nella sua crudele durezza ci può essere utile oggi ricordare quell’episodio cruento, sangue tra i banchi, per ripeterci quanto la scuola sia fondamentale nell’esperienza umana di ragazzi e insegnanti.
La qualità di un Paese, il suo futuro, la si può misurare sempre, in primo luogo, dalla profondità e modernità del suo sistema formativo.
Tornano alla mente le parole di Piero Calamandrei a proposito della funzione della scuola: «La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica... ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie… A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità (applausi). Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali.».