Sottoscrivo in pieno e plaudo.Rosewall ha scritto:un ritratto non lusinghiero:
L'amministratore delegato del declino italiano
Cesare Romiti, morto oggi a 97 anni, ha spinto la Fiat ad allontanarsi dall'auto e ha cercato, senza successo, di farsi imprenditore in proprio al centro del capitalismo di relazione.
Dei morti si deve parlare solo bene, ma non sappiamo come si sarebbe regolato Chilone di Sparta, che fissò la regola 2500 anni fa, nel caso di Cesare Romiti la cui influenza sui destini nazionali si è dispiegata nel secolo scorso, essendo nato a Roma il 24 giugno 1923. E sarebbe ingiusto salutare un uomo di 97 anni con ipocrite parole di circostanza, senza un giudizio. E' stato un protagonista di prima grandezza, tra i maggiori colpevoli, con i suoi danti causa Gianni Agnelli e Enrico Cuccia, dell'irreversibile declino dell'industria italiana.
Due sono le responsabilità rilevanti di cui dovrà occuparsi il tribunale della Storia.
1) Ha distolto la Fiat dall'auto, che aveva fatto grande l'azienda torinese, per trasformarla in una caotica conglomerata presente in un solo Paese ma in tutti i settori (dall'editoria alle assicurazioni, dalla chimica ai treni, dalle telecomunicazioni al turismo e soprattutto alle costruzioni), con l'idea che nel mondo postindustriale i profitti non li facevi producendo le auto migliori ma con il potere e con la capacità di aspirare fiumi di denaro dalle casse dello Stato ricattando la politica.
La diversificazione - indicata da un esercito di economisti a gettone come la strada obbligata per il benessere - ha distrutto la Fiat, che 30 anni fa ha smesso di investire sull'auto dopo aver pesantemente contribuito a scassare i bilanci pubblici, a partire dagli anni '70, con massicci ricorsi alla cassa integrazione, la richiesta di finanziamenti a fondo perduto per miliardi di euro (lo stabilimento di Melfi è stato interamente pagato dallo Stato), la vendita allo Stato di aziende decotte come la siderurgica Teksid.
2) La cosiddetta "marcia dei 40 mila" ottobre 1980, un corteo di quadri Fiat contro i sindacati che da 35 giorni, con il sostegno del leader comunista Enrico Berlinguer, bloccavano la fabbrica per protestare contro l'annunciato licenziamento di 14 mila lavoratori), è considerata il suo più grande successo personale e dai più un passo avanti decisivo nella modernizzazione del Paese. Ma in quel momento Romiti ha ha irreversibilmente indebolito i sindacati e imposto anche a quasi tutta la sinistra un modello culturale: solo imprenditori e manager, in quanto creatori di posti di lavoro per i quali il popolo deve gratitudine, sanno perseguire l'interesse generale.
Da allora qualsiasi critica all'azienda ha perso legittimità, per non parlare del conflitto. Imprenditori e manager sono stati autorizzati a sbagliare (spesso con il dolo, per arricchirsi a spese dell'azienda) senza doversi giustificare. Trent'anni dopo gli operai Fiat di Pomigliano d'Arco e Mirafiori, chiamati a un referendum su un accordo sindacale con nuove e peggiori condizioni di lavoro imposte dall'amministratore delegato Sergio Marchionne e avversate dal capo della Fiom-Cgil Maurizio Landini, hanno preferito a larga maggioranza il manager, sicuri che conoscesse la strada meglio del sindacalista.
Del dogma secondo cui il datore di lavoro ha sempre ragione Romiti è stato il primo profeta nella tragedia sociale del 1980, che oggi i suoi tristi epigoni riescono solo a replicare come farsa: i lavoratori non si fidano più dei sindacati ma nemmeno di padroni cleptomani, e nessuno sa come uscire da un cancro dei rapporti sociali che sta uccidendo l'industria.
Rito romano. Il suo più fulminante ritratto lo dipinse in privato un manager Fiat appena uscito dal carcere dopo l'inchiesta Mani Pulite: "I suoi occhi brillano davvero di eccitazione solo se si parla di appalti pubblici. Se non capite questo non capite niente di Romiti".
Romano di nascita, figlio di un impiegato delle Poste che muore quando il ragazzo ha 17 anni, cresce in mezzo agli stenti ("Eppure mi ricordo felice. Sì, sono stati gli anni più felici della mia vita. Per andare a scuola mi facevo cinque chilometri a piedi, ridendo e giocando, senza prendere il tram perché costava. Si camminava e basta. In allegria. Si camminava e si pedalava. L’anno prima di morire papà, una mattina, mi fece trovare una bicicletta in regalo. Nera. Non ricordo di aver più avuto un momento di felicità intenso come quello").
Laurea in Economia e commercio e primo impiego alla Bombrini Parodi Delfino, la fabbrica di esplosivi di Colleferro (50 chilometri da Roma). Ne curerà la fusione con la Snia Viscosa. In quella operazione viene adocchiato da Enrico Cuccia, fondatore e capo di Mediobanca, l'uomo che per tutta la seconda metà del '900 è stato il grande regista del capitalismo italiano e il mentore, finanziatore e consigliere principe dell'avvocato Agnelli.
Romiti arriva alla Fiat a 50 anni suonati. Prima c'è la fase costitutiva della sua personalità che ne fa un manager di rito romano al cento per cento, con la nomina ad amministratore delegato dell'Alitalia - compagnia di bandiera dell'industria di Stato come la Fiat lo era di quella privata - e poi all'Italstat, società dell'Iri (Istituto per la ricostruzione industriale, la grande holding dell'industria pubblica), destinata a diventare, sotto la guida di Ettore Bernabei, lo Stato parallelo degli appalti.
Cuccia lo manda alla Fiat come direttore finanziario nel 1974, nel 1976 diventa amministratore delegato insieme a Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti, ma il primo (spinto dalla disistima di Cuccia) diventa senatore per la Dc e il secondo se ne va dopo i famosi e tempestosi cento giorni: entrato al vertice Fiat anche come azionista (con il 5 per cento), l'attuale azionista di questo giornale si dimette (facendosi liquidare il suo pacchetto di azioni) sostenendo di aver trovato troppe resistenze al rinnovamento manageriale e alla riduzione del personale, mosse a suo giudizio indifferibili. Romiti resta padrone del campo.
"Non che prima di Romiti non ci fossero dei manager in Italia, ma si può dire che prima di Romiti in Italia non c'era il management, inteso come un vero e proprio gruppo sociale, dotato di caratteristiche proprie e di un certo grado di autonomia dalla proprietà". Questa interessante notazione è l'unico giudizio positivo nel severo libro di Marco Borsa e Luca De Biase Capitani di sventura (1993), la cui curiosa vicenda illumina un elemento chiave della cultura industriale di Romiti. Non c'è mercato che tenga, non c'è competizione, non ci sono i primati tecnologici o commerciali: tutto passa per l'esercizio del potere.
Non apprezzando il contenuto del volume, Romiti sguinzaglia una flotta di furgoni per tutta Italia con l'ordine di entrare in ogni libreria e acquistare tutte le copie di Capitani di sventura. Un'operazione che ha reso quel libro straordinario, il più grande successo commerciale rimasto inedito nella storia dell'editoria, una rarità bibliografica, anche perché nessun editore, da 27 anni, ha il coraggio di riproporne la stampa. Ma soprattutto dimostra l'attenzione parossistica di Romiti all'immagine, con cui ha battuto ogni record il 25 gennaio 2003 al funerale di Gianni Agnelli, quando si conquistò il ruolo del vero protagonista rimanendo in piedi, da solo, per tutta la cerimonia religiosa.
La dinastia che non fu. A 75 anni (1998) Romiti lascia per sopraggiunti limiti di età la presidenza della Fiat. L'avvocato Agnelli, abusando dei suoi poteri di azionista di maggioranza, gli assegna una buonuscita di 101,5 milioni di euro, superiore alla somma di tutti gli emolumenti (noti) incassati da Romiti in 24 anni alla Fiat.
Soggiogato da uno dei miti preindustriali di cui è intrisa una classe dirigente che pure si crede moderna, Romiti decide non solo di diventare "padrone" ma addirittura di fondare sui figli Maurizio e Piergiorgio una dinastia che lo metta al pari degli Agnelli, dei De Benedetti, dei Benetton. Prima si prende il Corriere della Sera, poi poi Aeroporti di Roma, comprata senza soldi ma con i debiti poi scaricati sulla società. Un fallimento dietro l'altro.
L'esito più beffardo glielo riserva Impregilo, la maggior azienda di costruzioni italiana, la preda sognata da sempre. L'aveva costruita lui pensando per la Fiat alla diversificazione anziché alle auto: nel 1989 compra la numero uno di allora, la Cogefar, e la fonde con la Impresit, l'azienda del cemento di casa Agnelli. Chiedetevi perché negli stessi mesi Romiti caccia Vittorio Ghidella dalla Fiat Auto e compra la Cogefar. Fu proprio Romiti uno dei protagonisti (ma sempre dietro le quinte) della grande operazione Alta velocità ferroviaria, l'ultima grande spartizione della Prima repubblica, un terzo all'Iri, un terzo all'Eni, un terzo alla Fiat, secondo le costituzione materiale del regime andreottian-craxiano.
Quando la metastasi corruttiva - di cui Romiti era occulto e compiaciuto lord protettore, riportandone una condanna a 11 mesi poi revocata grazie alla depenalizzazione del falso in bilancio voluta da Silvio Berlusconi - portò in galera tutto lo stato maggiore del mattone, Romiti coordinò la fusione della sua azienda con Girola e Lodigiani (da cui Impre.Gi.Lo) per salvare il salvabile. L'edificio costruito pazientemente da Romiti manager sarà distrutto da Romiti padrone.
Del piccolo impero industriale di Romiti passano alla storia soprattutto stipendi e buonuscite accumulati dai figli mentre distruggevano aziende e posti di lavoro.
Una corte litigiosa. Una delle ragioni principali del collasso della Fiat è che, nel ventennio di Romiti, un'azienda fino ad allora all'avanguardia nel mondo per la ricerca e sviluppo è diventata un campo di battaglia per cortigiani. Luca Cordero di Montezemolo, capo delle relazioni esterne e uno dei più fidati collaboratori di Agnelli, nel 1982 viene misteriosamente trasferito alla controllata Cinzano International (a proposito di diversificazione...). Tre anni dopo Romiti svela il giallo: "Abbiamo pescato, in Fiat, un paio di persone che pretendevano danaro per presentare qualcuno all’Avvocato. Uno dei due l’abbiamo mandato in galera, l’altro alla Cinzano".
Nel 2004, dopo la morte di Gianni e Umberto, con la Fiat che sta morendo anch'essa per gli effetti della cura Romiti, la famiglia Agnelli affida l'azienda a Marchionne e proprio a Montezemolo la presidenza. Sarà poi Marchionne a far fuori di nuovo Montezemolo. Corsi e ricorsi di una corte litigiosa.
Ghidella, il peccato mortale. Vittorio Ghidella, vercellese, otto anni più giovane di Romiti, è stato dal 1979 al 1988 capo di Fiat Auto. Mentre Romiti fronteggiava con energia e coraggio il terrorismo e il conflitto sindacale, Ghidella progettava auto. La Uno (1983) fu un successo mondiale senza precedenti. Seguirono auto talmente belle che non sembravano prodotte a Torino: la Thema, per esempio, piaceva più di Mercedes e Bmw. E poi la Croma, la Lancia Delta, la Tipo, la Autobianchi Y10.
Romiti decise che Ghidella gli faceva ombra, perché era bravo e perché voleva investire sull'auto, anche a costo di cedere quote di sovranità alla Ford, con la quale era arrivato a un passo dalla grande alleanza che avrebbe anticipato di oltre vent'anni l'analoga operazione conclusa da Marchionne con la Chrysler nel 2009.
Ghidella fu fermato da Agnelli che preferì bloccare lo sviluppo del gruppo piuttosto che rischiare di perderne il controllo. Ma, a parte questo, per Romiti l'unico investimento sensato sull'auto era lavorarsi i politici perché non toccassero la legge che, in nome degli interessi nazionali, vietava (sì, vietava) l'importazione di auto giapponesi. La partita si chiude con un colpo sotto la cintura: Romiti accusa il capo di Fiat Auto di traffici poco puliti con la Roltra, un’azienda che forniva i sedili per la Croma, e ottiene la sua testa. Ghidella gli rifila una battuta delle sue ("Non ci si improvvisa ingegnere dell’auto a 60 anni") e se ne va.
Il caso Ghidella è la pietra angolare di un disastro. Fu lui a denunciare ai magistrati che la Fiat di Romiti (oltre a falsificare i bilanci per pagare meno tasse e portare in Svizzera i soldi che servivano a corrompere politici e giornalisti, forse anche sindacalisti) truffava lo Stato gonfiando spese e ore lavorate per la ricerca tecnologica che il governo pagava a pie' di lista. Per molti anni dunque, lo Stato ha finanziato una ricerca in campo automobilistico che non è mai stata fatta. La parabola dalla Uno alla Stilo (che sembrava progettata da un ubriaco) è figlia anche di quel sistema, negli anni in cui i “capitani di sventura" abbandonano l’industria e cercano i guadagni facili con la finanza e con le commesse pubbliche lubrificate da tangenti. Quello è stato l’inizio della fine.
Vizi privati, pubbliche virtù. Romiti resterà, affiancato ad Agnelli, il simbolo della cultura feudale che una classe dirigente ignorante e provinciale è riuscita a imporre all'Italia, impedendole di diventare migliore di lei. Lo si vede da un fatto: l'Italia non è certo l'unico Paese al mondo in cui denaro e potere conferiscano un implicito diritto alla predazione sessuale, ma è sicuramente l'unico tra i cosiddetti civili in cui il potente non solo ostenta pubblicamente esuberanza erotica e infedeltà coniugali, ma lo fa sulle colonne del Sole 24 Ore.
Ecco alcuni memorabili stralci dell'intervista a Paolo Madron sul Sole 24 Ore del 15 febbraio 2009 (prima che Veronica Lario desse pubblicamente del "malato" a suo marito Silvio Berlusconi):
Domanda: "Un giorno il procuratore Sandrelli di Torino disse di lei ammirato: 'L’ho interrogato per otto ore e non mi ha mai chiesto di andare a far pipi'. La bontà della sua prostata introduce un tema privato. Lei è sempre stato un uomo molto esuberante, che viveva le sue storie sentimentali non certo di nascosto". Risposta: "Ci crede se le dico che il più grande dolore della mia vita è stato quando ho perso mia moglie?". Replica il giornalista: "Ci credo. Ma uno potrebbe chiederle conto di questa sua doppia morale". Risposta: "Non era una doppia morale. Lei c’era, era un punto di riferimento fondamentale. Poi è vero, anche nei sentimenti uno dovrebbe essere coerente. Ma io sapevo che la mia casa era là, che sarei sempre tornato. Anche se mia moglie Gina ne ha sofferto molto". Domanda: "L’Avvocato che cosa diceva di questo suo attivismo sentimentale?". Risposta: "Lo divertiva".
Giorgio Meletti
Bibliografia essenziale su Cesare Romiti
Cesare Romiti, Questi anni alla Fiat, intervista di Giampaolo Pansa, Rizzoli, 1988
Marco Borsa con Luca De Biase, Capitani di sventura, Mondadori, 1993
Giuseppe Berta, La Fiat dopo la Fiat, Mondadori, 2006
Nunzia Penelope, Vecchi e potenti, Baldini Castoldi Dalai, 2007
Cesare Romiti con Paolo Madron, Storia segreta del capitalismo italiano, Longanesi, 2012
Giancarlo Galli, Gli Agnelli, Mondadori, 1997
Paolo Griseri, Massimo Novelli, Marco Travaglio, Il processo, Editori Riuniti, 1997
Pino Nicostri, Fiat – Fabbrica italiana automobili e tangenti, Kaos, 1997
Franco Bernabè, A conti fatti, Feltrinelli, 2019
Una delle peggiori figure del XX secolo Italico.
F.F.